L’ultimo romano

Antonio se n’era andato presto, intorno ai vent’anni, appena concluso il liceo. In Inghilterra a studiare, poi a lavorare, infine a sposarsi e a metter su famiglia.

Anche Giovanni se n’era andato, per sempre, su una maledetta curva del Muro Torto. Amava le motociclette, Giovanni, ma la vita non lo aveva amato abbastanza.

Valeria, invece, era rimasta con loro fino ai trent’anni, quando gli studi in biologia marina l’avevano portata dall’altro capo del globo, in Australia.

Perché i genitori fanno di tutto per fortificare le ali dei propri figli, per poi soffrire, impotenti e insoddisfatti, nel vederli volare soli? Enzo e la moglie Assunta avevano compiuto enormi sacrifici per farli studiare. Come avrebbero potuto pretendere che si occupassero della loro pizzeria?

Tutti quanti se ne erano volati via, e Torpignattara non era più il quartiere di Pasolini, Ninetto Davoli e dei fratelli Citti. Incastonato tra la grigia urbanità di via Casilina e l’atmosfera da primi del Novecento che ancora alimenta il fascino del Quadraro, farebbe parte dell’area del Pigneto, ma nessuno sembra mai ricordarselo, non essendo stato oggetto di una recente e sfrontata speculazione immobiliare, non avendo ZTL, movida e Bar Necci a renderlo un ritrovo di hipster. Anche qui vi sono i villini di due o tre piani, anche qui esistono i vecchi magazzini della Roma papalina, ma nessuno ha ancora avuto l’idea di ricavarci dei loft a caro prezzo. Un tempo terra di confine tra centro e periferia, dove gli acquedotti romani sfociavano nella filarete, era ora divenuto un crocevia di lingue e razze senza alcun confine.

Enzo e Assunta erano nati e cresciuti a Torpignattara, e lì si erano innamorati. Una volta ci si salutava e aiutava, il condominio era una famiglia allargata, e ci si conosceva tutti. Delle famiglie che erano nate assieme alla loro non era rimasto nessuno. Il benessere li aveva portati tutti via da lì, verso abitazioni più lussuose, verso quartieri come S.Giovanni, Monteverde…Paride e Gabriella che avevano fatto fortuna con la ristorazione, erano finiti addirittura all’Aventino.

“Ce ne saremmo dovuti andare qualche anno fa…potevamo comprarci una bella villetta a Labico!” Assunta glielo ripeteva spesso, ma Enzo alzava le spalle, sbuffando. Non voleva vivere fuori Roma, specie ora che stavano invecchiando. Soprattutto, non voleva lasciare Torpigna e la sua pizzeria. Anche se adesso le cose non andavano più bene come una volta.

“Devo preparare altri fritti?” La voce della moglie risuonava dalla cucina, squillante come se fosse ancora la ragazzetta che andava a trovare nella baracca dove viveva con i suoi, dalle parti di via degli Angeli.

“No, per oggi basta.” Da un’ora almeno non si vedeva più nessuno. Enzo ritirò le teglie dal bancone e le portò in cucina. Con Assunta pulirono i ripiani e il forno, spensero le luci e tirarono giù la serranda. Erano da poco passate le sette.

Sul resto della via gli altri negozi erano ancora aperti. Tutti condotti da immigrati, lavoravano fino a notte fonda. Non si concedevano sosta, magari inviavano i soldi alle famiglie nei Paesi d’origine. C’erano tante pizzerie a taglio, poi, che gli facevano una grande concorrenza. Avevano tutte il kebab, che ora andava tanto di moda, attiravano i giovani e i loro connazionali, che ormai erano la stragrande maggioranza del quartiere.

Enzo ci pensava, e poi scuoteva la testa. Quando al telegiornale sentiva delle metropoli multi-razziali come Londra o New York, e di quanto Roma fosse ancora provinciale a confronto, gli veniva un ghigno sardonico sul volto. Dalle parti di Torpigna era l’ultimo commerciante romano, e quasi si sentiva ospite nei confronti dei bengalesi che non chiudevano i negozi di alimentari prima delle dieci di sera, così come dei cinesi che gestivano il ristorante sotto casa, una costante fonte di effluvi etnici che inondavano l’intero isolato.

Enzo e Assunta abitavano al terzo piano di un condominio di dodici appartamenti. Gli unici altri italiani erano tre studenti universitari fuorisede che vivevano sopra a loro. Erano in affitto, e il proprietario era un egiziano che abitava al loro fianco. Il suo nome era Said.

“La prossima settimana c’è l’inaugurazione della nuova pizzeria di Said, te l’ho detto?”

“Almeno una ventina di volte.”

“E’ un bel locale che affaccia sulla Casilina. Due serrande, ha anche i tavolini.”

“Buon per lui.” La moglie gli stava mandando di traverso la cena, già non eccelsa visto il poco tempo a disposizione.

“Io pensavo di andare…” Lo guardava implorante, con gli occhi vispi e languidi, contornati dalle rughe.

“Fai come vuoi.” Enzo si alzò da tavola, il corpo stanco e appesantito, e si diresse verso il divano.

“Tu non l’hai mai perdonato…”

Assunta aveva ragione, Enzo non aveva mai perdonato Said. Quando giunse dall’Egitto, nei primi anni Novanta, Said era un ventenne volenteroso che voleva imparare un mestiere che gli permettesse di vivere dignitosamente in Italia. Enzo lo prese con sé come garzone, e gli insegnò a fare la pizza.

“E’ cresciuto, ha fatto le sue scelte…gli è andata bene.” Enzo fissava il primo programma televisivo che gli era capitato davanti, e massacrava il telecomando con le mani grandi e callose. Non solo non l’aveva mai perdonato, ma ci soffriva ancora. Said, la sua smania di cambiare, le iniziative, le discussioni con Enzo. L’aveva accolto come un figlio, e come un figlio se n’era andato, anche lui. Soltanto che era rimasto a Torpignattara, e gli abitava sopra. Neanche si salutavano più, mentre Assunta era rimasta in buoni rapporti.

“E’ stato il primo ad aprire un pizza&kebab nel quartiere, ormai ha una clientela affezionata, ha la fama…”

Enzo sogghignò, amaro. “Si potrebbe dire che sono stato io a dare il via all’invasione, quando l’ho cacciato via dal negozio…”

“Non l’hai cacciato, se n’è andato lui…”

“Basta, lasciami guardare la televisione.” Era sfinito, e presto sarebbe crollato sul divano. Assunta l’avrebbe destato verso le undici, per farlo coricare a letto. Qualche rumore si affacciava alla finestra. Musica, risate, caos indistinto. L’eco dei passi, una presenza avvertita nella lontananza. Sembrava che i ragazzi stessero dando una festa.

“Ma questi non dovrebbero studiare, ogni tanto?”

“Non sono i ragazzi. Said, i suoi e gli altri condomini stanno facendo una cena in piedi sul terrazzo.”

“Mi fa piacere che usino gli spazi condominiali a loro piacimento!”

“Avevano invitato anche noi, ovviamente ho rifiutato…” Enzo tacque. Assunta spingeva da tempo per una riappacificazione. Said non aveva alcun problema, era Enzo che teneva il punto. Si sentiva tradito. Said aveva imparato in fretta, e bene, a fare la pizza. Ma quella moda del kebab, quel desiderio di allargarsi…

Come ogni mattina Enzo si alzò presto per andare a preparare la pizza. Abitava su una delle viuzze secondarie, fitte come alveari, e passando osservava i bengalesi che già aprivano i loro minimarket. Erano instancabili, e in fondo li rispettava: si erano presi quel che i romani avevano lasciato. Quando si sarebbe deciso ad andare in pensione, avrebbero preso anche il suo locale, lo sapeva già.

Impastava e infornava, rapido. Ai tempi d’oro, quando la sua pizza a taglio era la più richiesta a sud del Pigneto, ne sfornava ogni venti minuti. Con lui lavoravano Assunta e Said. Ormai la moglie arrivava soltanto dopo pranzo.

Erano le tre, quel giorno, e Assunta ancora non si vedeva. Enzo s’iniziò a preoccupare, prese il telefono e chiamò a casa. Nessuna risposta. Proprio mentre stava per accostare e fare un salto alla loro abitazione, gli comparve davanti al bancone un ragazzetto mulatto e dinoccolato. Era Ismail, il primo dei tre figli di Said: avrà avuto sedici o diciassette anni.

“Che vuoi?”

“La signora Assunta si è fatta male, è caduta dalle scale con le buste della spesa.”

“Oddio, e quando è successo? Nessuno mi ha detto nulla?” Il ragazzo lo guardava inebetito, un po’ apatico.

“La signora ce l’ha chiesto, per non farti preoccupare. Le hanno ingessato il braccio, ora è a casa nostra a riposare. Mia madre è con lei.” Karima aveva raggiunto Said in Italia dopo qualche anno. Era una brava donna, Enzo si tranquillizzò.

“Vabbè…grazie per l’informazione.” Doveva correre in cucina, entro un’ora sarebbero uscite le scolaresche del tempo pieno, e non aveva nulla di pronto. Ismail non se ne andava, però.

“Posso darti una mano io. Ho già finito di studiare.” Ismail era nato in Italia, aveva la parlata strascicata della borgata. Enzo era già sparito sul retro, si riaffacciò al bancone.

“Oh, e cosa potresti fare per me?” Ora era ironico. Si stava divertendo.

“Cucinare i fritti, impastare, tutto. Papà mi ha già insegnato il mestiere.”

“Davvero? E allora cosa studi a fare? Sei già pronto per fare il pizzaiolo…”

“Studio per farlo meglio…” 

Enzo rimase in silenzio. Ambizioso, come il padre. Non poté fare a meno di pensare ai suoi figli. Era sempre stato così orgoglioso del suo mestiere di pizzaiolo, ma non glielo aveva trasmesso. Forse era stato il primo a volere che facessero altro, che non si sporcassero le mani. Che emigrassero, da Torpigna e dall’Italia.

Era bravo, Ismail, si sapeva già destreggiare con il forno. Se lo immaginava già, Enzo, mentre dirigeva una catena di pizza&kebab in giro per Roma. Chiacchierarono molto, quel pomeriggio.

La sera, rientrando in casa, trovò la moglie ancora a casa da Said. Furono invitati a cena, ed Enzo non rifiutò. Una settimana dopo, assieme alla pizza, anche lui iniziò a vendere il kebab.

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